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La degustazione

La “Signora del Rossese”: così Giovanna Maccario ha puntato i fari su questo vitigno

27 Dicembre 2021
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di Titti Casiello

Una lingua di terra schiacciata tra il Mediterraneo, le Alpi e gli Appennini: la Liguria, quella cenerentola del vino italiano, che lontana dai binari delle terre enoturistiche, regala una viticoltura estrema, di rara bellezza.

Qui tra montagne a perdifiato, spezzettate in una miriade di parcelle e appezzamenti letteralmente strappati alla roccia, si nasconde un vitigno che nasce dal mare, quello ligure, e cresce tra le montagne, quelle alpine, quasi al confine con la Francia: il Rossese di Dolceacqua. Chi lo conosce? Forse i virtuosi e i curiosi. Perché in queste terre, così lontane dalle affollate coste turistiche liguri, non si arriva di passaggio né per caso. Eppure di menzioni nella storia ne ha avute, e anche di alte casse di risonanza nella critica enologica, Luigi Veronelli definì il Rossese come il miglior vitigno d’Italia e battendo le stesse strade, Mario Soldati, nel suo viaggio enologico in giro per l’Italia, lo definì come un “vino privato”. Poi d’improvviso l’oblio si è stagnato sul Ponente ligure enoico, come se da Genova fino a Dolceacqua fosse crollato un altro gigantesco ponte Morandi. E per decenni, il Rossese, ridottosi a circa un centinaio di micro-appezzamenti terrazzati, è diventato delizia e retaggio solo di un passaparola tra residenti.

Eppure c’è vita (vite) in Liguria, e seguendo le coordinate in origine tracciate da Veronelli tra “la Granaccia di Quiliano, il Pigato di Albenga, il Vermentino del Savonese”, oggi un nuovo vento spira su Ponente, e soprattutto su Dolceacqua, piccole comune italiano di appena 2.067 abitanti della provincia di Imperia. La coscienza e la memoria di questo territorio sono affidate tutte a due vignaioli, senza i quali oggi non staremo neppure qui a parlare di una Doc per il Rossese (che tra l’altro è stata la prima Denominazione di tutta la Liguria): Giobatta Mandino Cane, vignaiolo classe 1928 e Emilio Croesi (1912-1986), magnificato da Veronelli come uno dei più talentuosi produttori italiani, nonché sindaco di Perinaldo. E oggi questo bagaglio di cultura è portato avanti da soli 31 produttori, tanti, infatti, sono gli agricoltori che hanno creduto in questo vitigno, arrivato probabilmente in queste terre tramite il porto di Marsiglia. Una testardaggine ligure che si è tradotta in un’attenzione al territorio quasi spasmodica, se sol si pensa che per la Doc Rossese sono stati individuati ben 33 cru localmente detti nomeranze.

(I vigneti della cantina Maccario)

Tra questi c’è la Signora del Rossese, Giovanna Maccario, vignaiola da 5 generazioni, che, nel piccolo comune di San Biagio della Cima, dove la sua azienda esiste sin dal 1800, produce un vino, per così dire, apolide, ai confini con l’Italia, che strizza l’occhio alla Francia. La chiamano viticultura eroica quella di Giovanna e non potrebbe essere definita diversamente visto che le vigne paiono disegnare una lunga linea perpendicolare che dal cielo arriva fino a Ventimiglia, creando un divisorio tra la Val Verbone e la Val Nervia. Giovanna è partita da un solo ettaro e mezzo datole in eredità da suo padre, e oggi insieme con suo marito, gestisce 7 ettari che diversamente sarebbero rimasti abbandonati “i vigneti sono quasi tutti terrazzati e hanno pendenze superiori al 40%. Qui tutto è difficoltoso e deve essere necessariamente frutto della mano dell’uomo”. Ma è proprio tra queste altitudini da capogiro che il Rossese ha trovato il suo habitat ideale: la Tramontana che spira e che arriva dai vicini ghiacciai francesi del Clapier (distanti a meno di 20 chilometri), viene raggirata con sistemi di allevamento ad alberello con vigne che affondando le loro radici nello sgruttu così chiamato in dialetto quella lunga fascia di terreno argilloso che nel tempo, solidificandosi, si è screpolato in scisti.

L’azienda produce vini su 4 cru, con nessuna differenziazione in cantina quanto alla vinificazione. Macerazioni lunghe e affinamento solo in acciaio. “Ogni nomeranza è in grado di produrre un vino unico, a sé stante, e a me non resta che lasciare esprimere solo il territorio da cui proviene. Dal 2017 ho deciso di eliminare anche la menzione superiore per i miei vini, perché l’espressione veritiera non è data né dal rispetto del grado alcolico (almeno 13° per la riserva) né da un’attesa minima di un anno prima della vendita, ma solo dal loro territorio”. E il territorio viene rimarcato in ogni vino di Giovanna, che nelle sue 5 etichette, rivendica appunto 4 dei vigneti liguri più nobili Luvàira, Posaù e Curli e “da quest’anno anche Settecamini, un toponimo storico a 200 metri dai confini francesi. Sette camini come i 7 sentieri che utilizzavano i contrabbandieri e i Passeur per il passaggio dall’ Italia alla Francia”.

La degustazione

Rossese di Dolceacqua Doc “Brae” 2019
Figlio unico di madre vedova si potrebbe definire. La 2019 segna, infatti, l’ultima annata di Brae, da oggi, meglio noto come “Namenlos” ovverosia senza nome. Ed infatti al sempre conosciuto Rossese Brae è stato strappato il suo nome di battessimo: “è dal 2015 che siamo in attesa che questo toponimo venga riconosciuto come nuova nomeranza, ma visto che ancora non è stata autorizzata dal Ministero, quest’anno l’Ente certificatore ha deciso che finché non sarà approvato in maniera definitiva, non potrò utilizzare il nome Brae sulla mia etichetta”. E così, nelle more di questo limbo linguistico (e burocratico), Giovanna dimostra tutta la sua ironia, immettendo in commercio, dal 2020, un neonato sconosciuto all’anagrafe: Namenlos. Ma in questa sua ultima annata, senza crisi di identità, Brae 2019, di personalità ne ha, invece, da vendere con un profilo olfattivo gioviale, di fragola, melagrana e sbuffi alpini. E un tannino appena accennato che regala un sorso fresco e tonificante.

Rossese di Dolceacqua Doc “Brae” 2017
Un colore scarico e un naso che rimane prigioniero di un frutto olfattivo: questo il risultato ultimo di un’annata non propriamente favorevole, dove stenta ad emergere quella selvaticità tipica del Rossese.

Rossese di Dolceacqua Doc “Luvaira” 2019
Sono viti di 80 anni viti quelle di Luvaira, e in un vigneto dove l’altitudine è così elevata da non far arrivare in maniera diretta neppure l’aria marina, ad emergere è la terra coi suoi frutti. Qui il Rossese si mostra nella sua beltà: i ricordi olfattivi che emergono, di ciliegia e lampone, accompagnano un sorso tanto longilineo, quanto costante e composto tra sapidità e freschezza.

Rossese di Dolceacqua Doc “Luvaira” 18
In una stagione calda e siccitosa, con piogge alternate nuovamente a caldo, il calice si presenta cromaticamente ammaliante. Salgono sbuffi di china, mandarino e bacche rosse e poi un’efebica purezza si dipana al palato. Sorso che sa regalare bellezza, in un equilibrio che gioca tutto in uno scambio vicendevole tra sapidità e acidità.

Rossese di Dolceacqua Doc “Luvaira” 2017
Luvaira 2017 è un esile profilo di spezie, di note balsamiche e frutta come la prugna, ma complice l’annata, fatica un po’ ad esprimersi nel sorso, mancando di quella verve tipica del Rossese.

Rossese di Dolceacqua Doc “Posaù” 2019
Con ogni probabilità Posau significa “luogo del riposo”, riferito ai tragitti dei pellegrini lungo la Francigena. Ma senza ombra di dubbio Posau è il vigneto più precoce e calcareo dell’azienda, con piante di 65 anni dalle basse rese, ma dalle uve molte concentrate che in questo millesimo regalano un’espressività diretta dallo stampo fruttato e pepato. Il sorso è puro e nitido e seduce il palato un tannino composto e una deliziosa freschezza.

Rossese di Dolceacqua Doc “Posaù” 2018
Una configurazione quasi autunnale tra albicocca e tamarindo che rimanda ad un’annata dalla grandissima personalità dove il naso non fa null’altro che stimolare un sorso che si fa avvolgente e si assesta su una forte componente quasi salata.

Rossese di Dolceacqua Doc “Biamonti”2014
“Era un bel posto su uno sperone quasi sempre dorato e ventoso”, così Francesco Biamonti, nel suo libro L’Angelo di Avrigue, descriveva quel vigneto centenario di Posaù da cui Giovanna produce questo vino: “ho voluto dedicare questa vigna a lui. Sono le vigne più vecchie di Posaù ed è un vino che non produco tutti gli anni, visto anche le basse rese”. La 2014 regala, in un intenso rosso rubino, una terziarizzazione di odori mai opulenta che gioca ancora con frutta e fiori. Una trama tannica fine e perentoria e un finale sapido valgono a restituire la piacevolezza della beva.

Rossese di Dolceacqua Doc “Curli” 2019
Una piccola vigna di appena 0,35 ettari situata nel comune di Perinaldo, insignita di un riconoscimento illustre dal grande Veronelli che ai suoi tempi definì “Il vigneto Curli come la Romanée italiana” (il meraviglioso vigneto di Vosne-Romanée, in Borgogna). Questo vigneto fa storia a sé con uve dalla massa tannica ed estrattiva molto superiore alla media, e vini dall’inaudita longevità potenziale. “E’ magnifico questo rosso comunista, un rosso di una tonalità che invidio” scriveva Pablo Picasso incrociando una bottiglia di Rossese del vigneto Curli nel 1961. Quello stesso colore di intensità cromatica che sa regalare anche nella 2019. Perché il Curli da giovane è un rosso pieno, potente, eppure di grazia nel suo frutto e di eleganza nella grana dei suoi tannini.

Rossese di Dolceacqua Doc “Curli” 2016
“Tramite il signor Veronelli gli ho ordinato altro vino e gli ho mandato una pergamena di elogio a tanta bontà” scriveva Sandro Pertini ad Alessandro Natta (segretario generale del Partito Comunista italiano). Sarebbe da mandarla anche a Giovanna Maccario per questo Curli 2016 che si apre con lentezza all’olfatto in un temperamento austero e minerale. Al palato conferma i suoi tratti netti esprimendosi in un fitto dialogo tra tannini levigati, acidità e sapidità. Vino completo che prende il Rossese e lo porta fuori dai confini della Liguria.