Incontrare Maria Teresa Mascarello per parlare di vino e politica, Barolo e trentenni di oggi. E farsi raccontare cosa vuol dire gestire una cantina-icona del bere bene italiano famoso in tutto il mondo. La prima cosa che ti colpisce è che per diventare un simbolo di eccellenza non devi avere una grande cantina. Appena arrivi a Barolo e cerchi Maria Teresa al civico 15 di via Roma scopri che tutto è a dimensione umana. Entri, tutto è austero, ogni cosa al suo posto. In un certo senso sembra che il tempo si sia fermato. Ma non è del tutto così. Chi fa vino deve confrontarsi con un mondo in rapido cambiamento. E forse la forza di una cantina icona sta proprio nel conciliare il rispetto della tradizione e la visione del futuro. Tutto si muove stando fermi. Per dirne una, lei non è mai stata al Vinitaly.
Maria Teresa Mascarello come comincia la sua avventura in quest’azienda?
«Ho fatto studi non attinenti al vino ma poi le radici sono talmente profonde che a un certo punto della crescita si fanno sentire. Finita la scuola mi sono iscritta all’università in Letteratura e Lingue Straniere, ho fatto tedesco. Avevo scelto come prima lingua straniera l’inglese ma il corso di studi era troppo affollato e ho deciso di fare tedesco dove eravamo seguiti meglio. E Thomas Mann, per esempio, rimane il mio autore tedesco preferito. Dopo la laurea ho sentito forte il richiamo delle radici familiari e ho cominciato a lavorare in azienda. Quando ho iniziato a lavorare con mio padre era più utile il tedesco che non l’inglese perché i turisti interessati al Barolo, trent’anni fa, erano perlopiù svizzeri, tedeschi, austriaci».
Primo lavoro in cantina?
«A gennaio ’94 ho iniziato la gavetta in cantina occupandomi soprattutto della parte commerciale e amministrativa. Mi ha fatto da maestro papà anche nella piccola contabilità, più leggera di quella di adesso. Ora è tutto più complesso. Avevamo una macchina da scrivere e mi dava lezione di dattilografia e mi spiegava come impostare una lettera. Oggi non si rilegge neanche quello che si scrive. Ho fatto la segretaria di mio padre. Nel ‘98 ho preso in carico anche la gestione della vigna e della cantina».
Come sta oggi il Barolo?
«Certamente è in buona salute perché si è fatto un buon lavoro per migliorarne la qualità, ed è considerato ormai un pari dei migliori vini francesi. Prima si guardava sempre alla Francia, ora abbiamo conquistato le loro posizioni in alcuni mercati. Tuttavia la questione economica passa davanti a tutto e il Nebbiolo è stato piantato ovunque a scapito di altre varietà locali. È il Nebbiolo che impera su tutto e si è persa di vista la biodiversità anche se tutti si riempiono la bocca con questa parola. Dolcetto, Freisa, Barbera risentono della presenza del solo Nebbiolo, perché si estirpano i vigneti e si impianta solo Nebbiolo. Dove possibile atto a diventare Barolo e in altri casi ci si accontenta anche di fare vino destinato a Langhe e Nebbiolo nella speranza che il Consorzio apra le maglie».
Si sta stravolgendo il paesaggio?
«Dove prima c’erano boschi, noccioleti, frutteti è stato piantato ormai Nebbiolo. Il Consorzio a un certo punto ha chiuso ai nuovi impianti ma sempre all’interno della denominazione. Per un tot di anni ha chiuso la possibilità di nuovi impianti, ora ha riaperto le maglie e ci sono 66 ettari nel corso di 3 anni che saranno atti a diventare Barolo».
C’è troppo Barolo?
«Se lo troviamo in autostrada o nei supermercati qualcosa non ha funzionato”.
Perché piace il Barolo?
«Noi ci siamo nati, abbiamo una particolare affezione ma anche alle altre varietà della zona. Non si consuma quotidianamente a tutto pasto. Il fascino del Barolo è che il tannino, l’eleganza e l’acidità danno un’armonia pazzesca. Bisogna anche saperla raggiungere e non è scontata. Chi ha usato la barrique mirava a fare altro, a scapito dell’autenticità del Barolo perché la moda del Barolo era quella. Negli anni ’90 è quello che è successo. Ma quel mondo è tornato sui suoi passi. Mio padre ha partecipato alla battaglia tenendo alta la bandiera della tradizione ma non ha assistito alla vittoria della tradizione. Ora c’è un ritorno alla finezza e non alla concentrazione. Mi spiace che mio padre non sia qui ad assistere a tutto questo. Ora c’è una generazione di trentenni che hanno riportano le botti in cantina e lavorano lungo il solco della tradizione».
Tuttavia il vino, anche il Barolo, è per ora sotto attacco: salutismo, codice della strada, nuove tendenze di consumo, dealcolati. Come ci si difende?
«La cultura in questo Paese non è molto tenuta in considerazione. E il vino non è una bibita o una bevanda. Fa parte della nostra cultura. Bisognerebbe presentare il vino come fatto culturale. Noi siamo cresciuti in una famiglia dove il vino faceva parte della convivenza, della convivialità, del piacere. Tutto è anche dovuto al cambiamento delle abitudini delle famiglie che non mangiano più insieme, sono cambiati gli stili di vita. Ma rispetto a prima c’è più informazione e il consumo del vino di qualità di alcuni territori di pregio fa anche tendenza. Vedo anche una situazione opposta perché da bambina i clienti di mio padre avevano più di 40 anni. Ora c’è una generazione appassionata di trentenni che fanno chilometri e chilometri per visitare questa zona. E al contrario c’è anche una campagna contro il consumo di alcol per favorire i dealcolati. Chi consuma vino non lo fa per ubriacarsi, le problematiche sono più per i superalcolici. La questione sul dealcolato per me non ha nessun senso. il vino è la trasformazione di zucchero in alcol. Non chiamatelo vino! Si deve percorrere piuttosto la via culturale. È un’offesa a millenni di storia. L’industria pur di vendere cavalca la strada dei dealcolati. Impossibile paragonarli a vini come il Barolo che per arrivarci ci vuole un percorso di educazione e di formazione. Non è per farla difficile ma bere un bicchiere di vino talvolta richiede un pizzico di solennità».
Le Langhe non sono solo Barolo però. Giusto?
«Assolutamente sì. Prendi il dolcetto: è più giovane, immediato, si abbina facilmente. Bisognerebbe promuovere questo, non il dealcolato. Bisognerebbe puntare su vini più leggeri, vini da consumo quotidiano anche perché i giovani hanno meno risorse. Spingere su vini più economici. Ma lo ripeto: rispetto al passato sul vino c’è più informazione. E tanti sono gli stranieri nella mia esperienza. Su 100 visitatori della cantina la maggioranza è fatta da stranieri. E nella quota di italiani è cambiata la provenienza: vengono un po’ da tutte le parti. Noi vendiamo il 60 per cento del nostro vino all’estero. E straniero è anche il 60 per cento dei visitatori”.
In Langa siete alle prese anche con un cambiamento climatico significativo. Come ci si difende?
«È un grande problema. Per me la difficoltà del momento è questa e si ricollega al problema della biodiversità e delle monocolture perché anche così si stravolge il microclima. Tendenza iniziata 20 anni fa, la 2020 è stata l’ultima annata normale dove abbiamo avuto un quantitativo di acqua sufficiente e le piante non sono entrate in sofferenza. Ma dalla 2021 in poi stiamo vivendo situazioni estreme che mio papà e mio nonno non hanno mai vissuto. Inverni tiepidi e senza neve, estati a 40 gradi con rischi di scottature dei grappoli. La grandine fa parte dei rischi del mestiere ma se prima veniva ogni 5 anni in poche zone, oggi c’è un grosso rischio grandine giorno e notte da gennaio a dicembre. E non sono più chicchi ma palline da ping pong. Abbiamo dovuto cambiare modo di lavorare e condurre il vigneto, ma ci sono anni che non sappiamo davvero cosa e come fare, perdendo tempo e denaro. Una volta lavoravi senza porti troppi problemi. Ora si vive nell’incertezza. Ti trovi ad affrontare situazioni nuove. Poi per la siccità non c’è niente da fare. Non c’è neanche acqua».
Come si riflettono le annate sulla qualità del Barolo?
«C’è l’annata classica da conservare più a lungo e l’altra che non devi più aspettare anni per bere una bottiglia. Per certi versi i cambiamenti climatici hanno garantito più costanza tra un’annata e un’altra. Prima ricordavi due/tre annate eccezionali, ora nell’arco dei dieci anni sono tutte di livello buono se non ottimo. Dal 2000 a oggi è stata problematica la 2022 che non abbiamo neanche prodotto a causa di una gradinata che ha portato via tutto. E la 2003 che è stata caldissima. Ma le altre sono state tutte belle».
Troppi investitori sulle Langhe? Rischio colonizzazione?
«Il fatto che vengano a scommettere su questo territorio da fuori è gratificante perché le Langhe creano interesse a livello internazionale. Per altri versi gli investitori hanno borse piene di soldi e fanno aumentare i prezzi dei terreni. Certamente aumentando i prezzi dei terreni i giovani e noi locali siamo in difficoltà a comprare un pezzo di terra. Un ettaro a Cannubi è stato venduto a 4 milioni di euro. Decisamente troppo, si sconvolge un territorio. Investitori stranieri? Sì, con riserva. Spesso non hanno la cultura necessaria, approdano da altre attività senza alcuna radice né con il vino né con il territorio».
Tornando ai consumi e al mercato italiano, non è che nei locali si sta esagerando con le ricariche?
«Mi lamento più delle ricariche delle enoteche. Delle volte devo consigliare di berli al ristorante dove sono serviti. Vorrei che chi vende i nostri vini rispettasse la nostra etica di azienda. C’è una speculazione non da poco e non parliamo dei privati che comprano il vino e lo rivendono su internet. Ma c’è anche un altro problema».
Quale?
«Temo frodi, vini contraffatti con il mio marchio. Mi tocca fare la poliziotta al punto di dover pensare se ricorrere ai chip per tracciare le mie bottiglie. Siamo una piccola cantina che produce poche bottiglie ma molto ricercate. Temo che qualcuno se ne approfitti e sarebbe bruttissimo. Vengo da un’epoca dove il vino era visto come una cosa normale. Io lo vivo sempre così».
Cè qualcosa che vorrebbe dire al consorzio di tutela?
«Mi spiace dirlo perché nel consorzio ci siamo sempre stati, si chiama di tutela perché è nato per difendere le denominazioni da frodi. Vorrei che veramente fino in fondo difendesse e tutelasse. E invece a volte è più un club. Un consorzio non può difendere gli interessi di qualcuno ma della collettività e non deve permettere che venga compromesso il territorio».
Suo padre Bartolo Mascarello è stato un personaggio importante per tutte le Langhe e non solo. Proviamo a ricordarlo anche per quella sua frase rivolta ai langhetti “colpiti da improvviso benessere…”?
«È stato detto di tutto su mio padre. Era una figura di peso, non era un uomo qualunque. Aveva carattere, ereditato da mio nonno Giulio Cesare che era anche lui un personaggio. La Resistenza, la passione civile, l’impegno politico, un certo rigore, forse tipico, sabaudo, anche nel fare vino. Credo che tutti hanno riconosciuto questi valori in mio padre».
E poi nel 1994 venne la famosa scritta di Bartolo Mascarello “No barrique, no Berlusconi”. Oggi cosa scriverebbe suo padre “No barrique, no Meloni”?
«Macché. Le barrique sono sulla via del tramonto. Piuttosto scriverebbe “No Nebbiolo dappertutto”. E poi “No Meloni, no Trump, no Erdogan…».