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Scenari

La nouvelle vague degli chef siciliani e la ripresa: preoccupati, sfiduciati, ma…

27 Aprile 2021

di Clara Minissale

Scoraggiati, sfiduciati, preoccupati, ma non mollano.

I giovani della ristorazione siciliana, chef trentenni che poco prima dell’arrivo del Covid avevano scommesso sull’Isola decidendo di dar vita qui al loro ristorante, cercano di resistere alla violenta onda d’urto causata dalla pandemia, immaginando un futuro prossimo in cui riaprire.

Giovanni Lo Monaco: “Senza nessun sostegno mi sento abbandonato”
“Non avrei mai pensato di trovarmi in una situazione del genere. Per me che avevo appena aperto è stato devastante”, dice Giovanni Lo Monaco. Lui, 28 anni, il suo Lo Monaco Ristorante lo aveva inaugurato a gennaio del 2020 a Villabate. Una scommessa quella di decidere di restare nel suo paese di origine ad est di Palermo dove, fino ad ora, nessuno aveva puntato sull’alta cucina. “Avevamo appena fatto un grosso investimento per aprire il locale – dice – e adesso ci siamo ritrovati costretti a farne un altro per creare un dehors all’esterno che ci consenta di tornare a lavorare non appena sarà possibile. Sono molto preoccupato – ammette – perché se non dovesse funzionare, una nuova chiusura non sarei in grado di sostenerla”. Delle dieci persone che, tra sala e cucina, lavoravano con lui, un buon ottanta per cento ha deciso di cambiare mestiere, scegliendo altri settori meno rischiosi. “Sono arrivato a mettere in discussione tutto – dice – le scelte fatte, la decisione di aprire questo ristorante, ma è il mio lavoro da sempre. Senza nessun sostegno, mi sono sentito abbandonato”.

Paolo Romano: “Aprire solo a pranzo non ha senso…”
La stessa sensazione accompagna le giornate di Paolo Romano, 31 anni, chef e patron di Pablo’s a Palermo, a pochi passi da piazza Marina, aperto a luglio 2018. Per lui la casella da incorniciare sul calendario delle riaperture è il primo giugno. “Siamo in pieno centro storico, non abbiamo spazi esterni quindi se le cose restano come le hanno annunciate, potremo aprire solo a pranzo – dice – che per noi è un’ulteriore penalizzazione. Un ristorante come il mio è un luogo nel quale non si va solo a mangiare, ma a fare un percorso di degustazione, si indugia a tavola. Anche l’idea del coprifuoco è avvilente. Inoltre noi lavoriamo tanto con i turisti dei quali, adesso, non c’è nemmeno l’ombra. Insomma la ripartenza non la vedo affatto rosea e secondo me la prossima stagione estiva sarà ben peggiore di quella passata”. Le porte del suo ristorante sono chiuse da sei mesi e l’organico è ridotto all’osso: lo chef in cucina, il maître in sala e la fidanzata dello chef che si occupa dell’accoglienza. “Dobbiamo ridurre le spese e tenere bassi i costi fissi, dice, non c’è altro modo per cercare di sopravvivere”.

Claudio Oliveri: “Facciamo sacrifici, ma la politica…”
Non va meglio sull’altro versante della provincia palermitana, a Bagheria dove Claudio Oliveri ha aperto il suo Oliveri 1964 a dicembre 2019. “Mi immedesimo nella situazione sanitaria che è drammatica – dice lo chef – ma mi fa rabbia vedere in giro tanto menefreghismo, nessun controllo. Noi facciamo sacrifici, ma è durissima andare avanti. Stiamo cercando di pianificare i prossimi mesi, ma speriamo davvero che si prendano decisioni adeguate a livello politico. Io non posso permettermi di non essere fiducioso – aggiunge – e sono convinto che appena ce ne daranno la possibilità torneremo a lavorare bene. Speriamo davvero che quel momento arrivi il prima possibile perché così non ce la facciamo più”.

Giacomo Caravello: “Di noi non importa niente a nessuno”
Dalla provincia palermitana a quella messinese le cose non cambiamo ed è uguale la sensazione di abbandono da parte delle istituzioni. “La nostra situazione è davvero assurda”, racconta Giacomo Caravello, 31 anni, chef e patron di Balìce a Milazzo. Il suo ristorante si trova in una sorta di terra di confine dove si intrecciano norme che lo lasciano senza speranza e aiuti economici. “Abbiamo aperto a luglio del 2019. Siamo troppo giovani per dimostrare un calo di fatturato e troppo vecchi per un contributo una tantum e abbiamo sulle spalle l’importante investimento fatto per l’apertura”. Il suo ristorante è tra quelli che dovrebbero aprire l’1 giugno solo a pranzo perché non ha uno spazio all’aperto, ma lui ce la mette tutta per non scoraggiarsi. “Abbiamo un giardino interno circondato da vetrate completamente apribili che permetterebbero una perfetta areazione degli spazi. Abbiamo provato a chiedere permessi e autorizzazioni per utilizzarla come spazio esterno, ma nessuno si vuole prendere questa responsabilità. Fa rabbia perché abbiamo spazi grandissimi che non potremo usare e probabilmente saremo costretti a spostarci in un altro luogo, un temporary restaurant, pur di riuscire a lavorare. Non posso fare a meno di pensare che se avesse chiuso un’importante azienda italiana avremmo i sindacati in piazza. Ma noi siamo piccole aziende e di noi non importa niente a nessuno”.