Giornale online di enogastronomia • Direttore Fabrizio Carrera
L'intervista

“I produttori italiani di vino hanno paura ad alzare i prezzi: ma ora serve osare”

02 Dicembre 2020

Un 2020 che sta (per fortuna) finendo e un 2021 tutto da interpretare.

La pandemia ha di certo sconvolto le nostre vite, ma anche i mercati internazionali per quel che riguarda anche i settori del cibo e del vino. Ne parliamo con Francesco Minetti, Ceo dell’agenzia Well Com, agenzia di comunicazione specializzata nel settore agroalimentare, oltre ad essere formatore e docente, con una laurea alla Bocconi di Milano.

Insomma Minetti, ha detto che la pandemia ha risvegliato le nostre coscienze. Ma in che senso?
“La crisi c’è ed è congiunturale. Ma è destinata a passare, come tutte le pandemie. Anche se non sappiamo quando. Non stiamo parlando di una crisi strutturale, il tema vero è quello che ci ha costretto a ragionare in modo nuovo. E aggiungo: il settore agroalimentare italiano si è forse reso conto che non può solo concentrarsi sul fare il prodotto buonissimo. E che serve altro”.

Spieghi…
“Il cibo deve essere centro di un’operazione culturale, parlo soprattutto di quello italiano. Non stiamo parlando di cibo fatto attraverso colture estensive, come avviene in altre parti del mondo. Abbiamo una biodiversità incredibile, ma abbiamo l’opportunità di aumentare il valore percepito. Credo che a questo punto diventi una responsabilità etica far capire questo valore aggiunto, legato a una produzione sostenibile, dal punto di visto ambientale e sociale. Un’operazione che, sono certo, darebbe ricchezza anche alla filiera”.

Alla fine il problema è sempre quello di non riuscire a fare rete, stare insieme…
“Credo si tratti di un falso problema. Ci sono, e ne vedo parecchie, iniziative che funzionano. I consorzi, molti di loro, lavorano benissimo, oltre a tutta una serie di associazioni. Non manca di certo l’associazionismo. A volte manca un approccio professionale e consapevole al mercato”.

Che fare?
“Guardare a chi fa meglio di noi. Noi facciamo più vino dei francesi, eppure il valore della loro produzione è molto diverso. Il nostro vino, sul piano qualitativo, è assolutamente competitivo, e allora perché questo gap di valore? Si parla di 27,5 miliardi di euro contro 14,5 (dati 2019 da inumeridelvino.it). La verità? A volte alzare i prezzi dei nostri vini è un ostacolo psicologico insormontabile”.

Accuse pesanti…
“Faccio un esempio. Il Verdicchio ha un prezzo medio che non riesce nemmeno quasi a remunerare la componente agricola. Eppure stiamo parlando di un grande vino. Da noi vince la logica “ho il magazzino pieno e lo vendo a qualsiasi costo e a qualsiasi prezzo”. Vengono spesso tralasciati gli aspetti di marketing e comunicazione. Invece in altre aree del vecchio e nuovo mondo hanno fatto l’esatto opposto, cioè hanno detto: “Vediamo quanto assorbe il mercato e poi produciamo quello che serve”. Con risultati molto diversi”.

Torniamo alla questione prezzo del vino
“Per molti il fatto di alzare il prezzo del vino rimane un tabù. Quando parliamo di mercato del vino, sbagliamo l’analisi. Ci sono tanti mercati del vino, non uno solo. E’ una realtà molto frammentata. Poi negli ultimi anni il numero di aziende vitivinicole è aumentato esponenzialmente, ma dall’altro lato il consumo pro capite negli ultimi decenni è sceso parecchio in termini quantitativi, ma incrementato a valori. Credo sia venuto il momento di ragionare in maniera diversa: se l’azienda non può produrre per un mercato di massa, deve scegliere un mercato di nicchia. Se produce un certo numero di bottiglie deve chiedersi a chi può venderle. E, paradossalmente, la difficoltà di vendere i vini a 100, 200 o 500 euro, non è proporzionale a vendere a 3 euro. I vini che costano tanto (i cosiddetti fine wine), e quindi le aziende che hanno scelto di perseguire questa strada, hanno finora basato la loro comunicazione su una chiara identità di marca supportata da tre aspetti fondamentali: la storia, i punteggi delle riviste internazionali e l’esclusività”.

Quindi si deve partire da una corretta comunicazione?
“Oggi se ne fa tanta e spesso, ma a volte generica. Il consumatore, invece, ha il desiderio di scoprire nuove chicche, come vecchie varietà di uva riscoperte. E anche nel food è così. Pensiamo ai grani antichi, le ricette originali del cioccolato di Modica, la pasta monograno, insomma aziende che hanno recuperato quell’attitudine di sviluppo prodotto vista nell’ottica della corretta comunicazione, che è prima di tutto dialogo con il consumatore”.

Lei però ha aggiunto un’altra cosa…
“Sì, che in Italia il problema non è di tipo tecnico. Ci sono grandissimi e bravissimi agronomi per gestire le nostre produzioni. Il gap con gli altri non è produttivo, è di tipo manageriale. Ritengo i prodotti italiani tra i più buoni al mondo, anche nel senso di fare bene alla salute”.

E quindi?
“Bisognerebbe spostare il focus dal prodotto al cliente e interrogarsi a fondo su quali siano i bisogni reali di chi acquista. Quelli che hanno più successo sono quelli che parlano di più con i loro clienti. Serve segmentare l’offerta, dare un’idea chiara di piramide produttiva, una chiarezza identificativa, un modo per essere più credibile su più canali, dalla distribuzione moderna alla ristorazione”.

E il 2021 incombe. Come affrontarlo?
“Un anno, il 2021, che sarà molto difficile da interpretare. Complesso stabilire quando si potrà tornare ad una normalità. Ma nel frattempo bisogna ipotizzare delle strategie che siano praticabili e quindi pensare a qualcosa di diversificato, sia per paese che per canali di comunicazione. E anche, in qualche modo “garantibili”, cioè che siano “a prova di Covid-19″. E questo è anche un po’ il senso di quello che dico. La pandemia ci ha fatto scoprire tecnologie a cui non pensavamo minimamente. Penso alle conferenze stampa in streaming, così come le presentazioni, le degustazioni. Sono tutti strumenti che consentono una relazione con molte più persone lontane, ma vicine e coinvolte allo stesso tempo, con un minor costo sociale, economico e ambientale”.

Quindi aboliamo i press tour, per esempio?
“No, il tema non è abolire: mostrare il territorio, la cultura, il contesto è fondamentale, in particolare per denominazioni e aree emergenti. Il tema è quello di evitare quello che i mercati finanziari chiamano “rischio di concentrazione”: lavoriamo su più canali e preserviamo le relazioni, oltre a consolidare questo nuovo modo di lavorare”.

Mi dica tre luoghi italiani che hanno un grande potenziale inespresso
“L’Oltrepò pavese in primis, ha grandi chance. È un luogo molto vicino a Milano, e in questo momento può far tesoro di questa prossimità. Inoltre il Pinot Nero, per cui l’Oltrepo è il terzo territorio al mondo in termini di ettari vitati, è senza ombra di dubbio il vitigno più acclamato dalla stampa e dalla sommelerie internazionale. Gli sparkling wine sono in costante ascesa ormai da qualche anno. E non dimentichiamoci del riesling renano che da queste parti viene molto bene”.

Poi?
“Le Marche. Non c’è solo il Verdicchio, ma un connubio quasi perfetto tra asset produttivi e una cultura enogastronomica, paesaggistica e culturale di livello assolutamente mondiale”.

E infine?
“La Sicilia. Qui bisogna osare. I prezzi dei vini non si alzano perché c’è ancora un retaggio culturale da superare. Nel dna c’è un’eccellenza produttiva, ma a volte il marketing è più orientato al turismo che al prodotto. Eppure è una regione che ha tutto, in termini di biodiversità è unica, ha storia, cultura, cucina, gamma dei vini. Si potrebbe segmentare meglio la produzione. L’Etna, per esempio, lo sta facendo. Credo possa essere una strada interessante anche per la Doc Sicilia”.

C.d.G.