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Le grandi trattorie italiane/7. Il pesce come Dio comanda alla Vecchia Marina

12 Luglio 2023
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C’era un tempo, pochi decenni orsono, quando Roseto degli Abruzzi, prima del 1927 Rosburgo, era tutta qua: un grappolo di case, la ferrovia e le ville di qualche signorotto, che nell’entroterra aveva il suo latifondo e qui teneva i granai da cui viaggiavano le farine. Tra di esse anche l’edificio ottocentesco appoggiato sulla sabbia, Villa Presutti dal nome di un facoltoso deputato, dove oggi ha sede una delle migliori trattorie di pesce italiane, la Vecchia Marina, con la sua insegna d’antan di albergo ristorante. Allora la famiglia dell’oste Gennaro D’Ignazio abitava come tutte in qualche frazione sulle colline retrostanti, conducendo una vita che non poteva che avere a che fare con la gioia della tavola e la fatica nei campi.

C’era la zia Maria, “faccendiera sveglia” che con un gruppo di donne cucinava ai matrimoni per centinaia di persone. E per i bambini come Gennaro era affascinante quella liturgia che cominciava cinque giorni prima, a fare le pallottine, poi il pane e le giardiniere, per passare infine alle lunghe cotture. Paraprofessionista a tutti gli effetti, oltre che impeccabile donna di casa. Il padre Gennaro gestiva il mulino a macine pubblico di Borgo delle Rose e allevava i maiali. Cosicché quando finiva la scuola, passata la mietitura e la trebbiatura coi sistemi antichi, dati i terreni scoscesi, il bambino scendeva con la zia in quella che oggi è la Riserva del Borsacchio, a catturare nello specchio d’acqua alto un palmo le telline, i fasolari rigati e soprattutto i cannolicchi, i più buoni di tutti, che però a camminare ti ferivano i piedi. Tutta un’educazione sentimentale che un po’ per caso ha rimesso in pentola, quando dopo il diploma alla scuola agraria e gli studi sfumati in enologia, si è ritrovato a fare stagioni negli alberghi e nei ristoranti di un paese travolto dalla trasformazione turistica. A maggior ragione quando i titolari della pizzeria dove lavorava, gli hanno offerto di mandare avanti un secondo locale, che a lui iniziava a piacere, per i soldi in tasca, ma anche per le relazioni umane e la possibilità di migliorarsi ogni giorno. A 24 anni era già titolare con l’aiuto di un ragazzino di 15, Giovanni Parnanzone, che oggi è suo socio e alter ego in sala, nonché suo cognato; nel 2000, poi, rilevava la Vecchia Marina, locale più grande e signorile. Lo stesso anno di nascita del figlio Antonio, che ha appena speso 6 mesi da Pino Cuttaia e manifesta una predisposizione per la pasticceria. “Ma io gli dico sempre che un oste deve seguire un po’ tutto, non può fare una cosa sola”.

Prima e seconda generazione, saperi antichi dentro una nuova professione. A un certo punto se ne è iniziato a parlare, di quella trattoria dove un pazzo ogni notte partiva per accaparrarsi il pesce migliore al mercato di Giulianova, intorno alle 2. Poi alla fine schiacciava un pisolino verso le 7, prima del servizio. “Non è che non mi fidi – precisa Gennaro – È che nessuno può comprare il pesce giusto, per come lo vogliamo proporre noi. Bisogna essere audaci e fare qualcosa di diverso, basato su una conoscenza rara”. È affascinante sentirlo parlare della sua materia, rigorosamente selvaggia, locale, appena pescata. “Il nasello per esempio, a tanti non piace perché perde consistenza in fretta, se non è quello giusto. Bisogna sceglierlo con la bocca aperta: è la spia che ha subito la baiatura, cioè è stato tuffato nelle vasche di acqua e ghiaccio, come fanno i marinai scrupolosi, che hanno imparato dai padri e dai nonni. Tirando su il pesce da 50 metri, la pressione repentinamente crolla e la vescica diventa un palloncino, che spalanca la mandibola. Resta così, grazie al rigor mortis, e regge la cottura. Oppure la triglia: l’80% di quella che si compra è di risulta dalla pesca di sogliole e canocchie, quindi rovinata, perché è un pesce delicato che si spancia, perde i succhi gastrici che inquinano le carni con sentori fenici. La nostra no. Il mare va giudicato attraverso un processo indiziario, non probatorio, perché nessuno ha le prove. Ma più indizi ne costituiscono una: solo l’esperienza e il confronto fra diversi racconti consentono di prenderci, con la fortuna di conoscere marinai che traducono sapere in parole”.

Andare all’asta ogni mattina permette anche di risparmiare, comprando sempre nel momento più favorevole ciò che arriva in abbondanza, che si peschi sotto costa o lontano. In tutto sono una cinquantina di cassette al giorno, che servono anche per il sabato e la domenica, quando l’asta non c’è. Per questo quando il pesce arriva in cucina alle 7, ad accoglierlo c’è una bella squadra per la pulizia e la trasformazione, capitanata dalla sorella Loredana, una che è capace di mondare 30 chili di totanetti da 7 grammi ciascuno con le sue dita da sarta. Allora una piccola parte del bottino, quella destinata al crudo e al servizio del fine settimana, viene abbattuta in modo pensato, secondo il contenuto di acqua e calibrando le dimensioni dei pezzi. Perché qualcosa ci scapita, è vero, ma sempre meno che a servire pesce di qualche giorno prima. La serietà è tale, che si chiude durante il fermo pesca: una cinquantina di giorni di altissima stagione, durante i quali la famiglia lavora allo chalet, che propone una ristorazione più veloce, in ciabatte e costume, vedi gli gnocchi orto e mare con caponata e molluschi. Non sono numeri da poco: in quella che somiglia a un’alacre macelleria di mare, si affaccendano 15 persone, per servire 150 ospiti al giorno, attirati dalla fama di una materia senza eguali. Attorno ai tavoli con le tovaglie immacolate, la raccontano anche i quadri di un pittore rosetano, Pasquale Celommi, che nell’800 dipingeva le lancette a vela, paranze che pochi sapevano condurre sfruttando i venti e interpretando il sole. Così elaboravano strategie di andata e ritorno, che talvolta li lasciavano per un po’ in mezzo al mare. Allora tiravano fuori i pomodori appesi e facevano i loro guazzetti.

Sarebbe facile rovinare una materia così nobile. Non è il caso della Vecchia Marina, abile nel giostrare cotture al vapore, crudi e casseruole che arrivano roventi in tavola, oltre alle paste fresche, vanto della casa. Con la complicità del frantoio Montecchia, che fornisce 35 quintali l’anno di un blend di media intensità da cultivar locali, e delle verdure della Valle del Vomano o del papà di Parnanzone, ex ortolano. Il piatto più iconico sono i Tagliolini Vecchia Marina, pasta di acque e farina da grani antichi, come il solina, senza uova, condita con vongole, seppie e scampetti, senza pomodoro. Discende dalle sagne della nonna, servite con i fagioli, in estate asciutte col pomodoro fresco. “E per quanto all’inizio mi dicessero che no, col pesce non si potevano servire, perché troppo amidacee, io ho trovato il sistema per lavorare a mano un impasto più duro”. Dove la cottura del pesce è puristica e attenta, il risultato piacevolmente cremoso, senza interferenze. “Poi c’è il pane che è bianco, perché mia nonna Mariuccia ne aveva mangiato tanto di nero, quando faceva la fame con i suoi 8 fratelli, cosicché quando lo preparava e lo apriva, restava incantata: “Quanto è bianco”!

Niente ostriche nei crudi, tutti nostrani e stagionali: solitamente tre filettini (come nasello, triglia e gallinella) e altrettanti molluschi e crostacei (per esempio calamaretti, scampetti e gamberi), più salse di peperoni o broccoli, un’emulsione della casa di miele, senape e succo d’arancia. Ma c’è anche un’oliva quasi all’ascolana, fuori disciplinare perché il ripieno di pesce non è precotto, ma cuoce al vapore, dentro l’impanatura di albumi e pane fatto in casa, che tira meno olio per la lunga lievitazione. E poi l’irresistibile guazzetto alla rosetana, dalla composizione stagionale, cotto espresso in padella; la frittura di paranza mista, i pesci al forno e sulla griglia al vapore, che non secca. Prima che Antonio rientrasse in squadra, la pasticceria era quella tipica: cantucci abruzzesi, spumini alle mandorle tostate, tartufini per un ricordo dei tanti abruzzesi emigrati nelle miniere belghe e fiamminghe, offerti a tutti con un calice di liquore alla genziana o ratafià di visciole; poi magari la pizza dolce. Oggi ci sono anche il tiramisù in versione cappuccino, alleggerito, e le Colline Teramane, dessert composto di crumble al rosmarino, chantilly di ricotta, crema di mosto cotto e carote, salse di melagrana e pompelmo. Facile pescare abruzzese dalla cantina, dove 300 referenze raccontano il rinascimento del Trebbiano e del Cerasuolo.

LA RICETTA

L’agriaglio e Olio
INGREDIENTI PER 4 PERSONE:

  • 2 seppie di media grandezza
  • 200 grammi di gamberetti rosa
  • 1 spicchio di aglio rosso di Sulmona
  • 1/2 zucchina
  • 1/2 carota
  • 1 cipolla rossa piccola
  • 1 pacchetto di Spaghetti classici
  • Olio EVO
  • Prezzemolo
  • Sale

PROCEDIMENTO:
Mettete a bollire 2 litri di acqua, un litro di aceto bianco, 250 grammi di sale e 30 grammi di zucchero. Tagliate a stic le carote e le zucchine, solo la parte verde e le cipolle a mezzaluna. Sbollentare per circa un minuto e raffreddare immediatamente in abbattitore o acqua e ghiaccio. Spellate le seppie e tagliate alla jukienne, sgusciate i gamberi. Mettete a bollire l’acqua per gli spaghetti, nel frattempo preparate una padella bella ampia e versato una buona quantità di olio evo e aggiungete lo spicchio d’aglio tritato finemente in precedenza. Accendete la fiamma al massimo della potenza quando mancano 3-4 minuti alla cottura degli spaghetti, quindi ad olio bollente unite i gamberi e la seppia e girate velocemente in modo da ottenere una cottura veloce. Appena prima di scolare la pasta aggiungete le verdurine in agrodolce ben scolate. Tirare la pasta in padella e servire con una manciata di prezzemolo tritato.