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Ristorante Principe di Belludia, Martin Lazarov: “Questo è l’anno della maturità, sono concreto e meticoloso ma oso di più”

26 Giugno 2025
Martin Lazarov Martin Lazarov

Siamo tornati al Principe di Belludia, ristorante fine dining del San Corrado di Noto, gioiello di raffinata ospitalità siglata Relais & Châteaux, premiato con il riconoscimento “Best in Sicily”, dal nostro giornale, come miglior ristorante di Sicilia nel 2024. L’executive chef è Martin Lazarov, giovane talentuoso e ambizioso, che in pochi anni ha trasformato un luogo affascinante in un laboratorio di idee, di tecnica, di visione.

Il 2024 è stato per lui l’anno della consacrazione pubblica: molti riflettori sono stati accesi da parte della critica di settore e sono cresciute le aspettative. Ma come procede il suo percorso evolutivo? Lo abbiamo chiesto proprio allo chef nel corso della nostra intervista. E quel che emerge è un 2025 da vero spartiacque. “È l’anno della concretezza – dice Lazarov –, della maturità. Durante la chiusura inverale abbiamo scelto di fermarci per studiare, analizzare, ripensare tutto: cucina, sala, accoglienza. Con metodo, rigore e… libertà”.

 

Qual è oggi il concetto chiave che sintetizza la sua evoluzione come chef?

Direi che oggi nel mio lavoro è emerso in maniera chiara un concetto nuovo: quello della concretezza. Una concretezza che si affianca a una consapevolezza sempre più matura. Questo processo è stato possibile anche grazie alla continuità della mia squadra: ho mantenuto i pilastri che già erano con me lo scorso anno. Persone con cui oggi c’è un’intesa profonda, un modo diretto di lavorare, più deciso, più studiato. Siamo cresciuti insieme: noi, il ristorante, la sala, e anche attraverso il confronto costante con gli ospiti. È un’evoluzione condivisa, dove ogni elemento ha trovato il suo posto. Nel 2025 ho deciso di dedicarmi solo a viaggi gastronomici e congressi: niente eventi, niente distrazioni. Ho avuto bisogno di fermarmi e immergermi nello studio. Sono stato a Cannes, a Parigi, ho viaggiato anche in Italia, tornando a Milano, visitando diversi ristoranti tre stelle Michelin, e mi sono spostato anche sul territorio. Ma l’obiettivo era chiaro: tornare in cucina, tappezzarla di libri, appunti, quaderni, e mettermi a studiare. Volevo isolarmi, concentrarmi, costruire con metodo e rigore.

 

Cosa ha portato con sé dai suoi viaggi gastronomici e da cosa si è lasciato ispirare?

I miei viaggi sono nati da un desiderio preciso: andare a mangiare in un ristorante che per me rappresenta qualcosa, e costruire intorno a quel luogo tutto il viaggio. Così è stato, ad esempio, a New York all’Eleven Madison Park, oppure a Copenaghen al Noma, o ancora a Parigi, al Septime. Non lo faccio per emulare: a me interessa capire il metodo, il modo in cui gestiscono il servizio, il linguaggio della sala, l’organizzazione. È lì che si vede l’eccellenza. Ti rendi conto fino a dove ti puoi spingere a livello tecnico, quanto studio serve davvero per arrivare a quei livelli. In questo processo, ho anche lasciato andare un po’ di rigidità, un po’ di aspettative. Continuo ad aspettarmi tanto da me stesso e so che l’ospite si aspetta tanto da noi – ed è giusto così. Ma oggi mi interessa di più il gioco, la libertà di esprimermi, anche rischiando, anche provocando. Con la maturità, ho imparato a osare con maggiore sicurezza. Quando sono stato al Noma, ad esempio, mi ha affascinato la loro trasgressione. Lì, l’identità del ristorante sovrastava tutto: non seguivano regole, ma creavano regole nuove. Questo mi ha segnato. Mi ha spinto a lavorare con fasi complementari: rigore tecnico e desiderio di sperimentare.

 

Si è parlato tanto di fine del fine dining, di ritorno alla “semplicità”, senza eccessi. Lei che pensiero ha a riguardo?

Oggi credo che ogni chef debba scegliere da che parte stare. Alcuni decidono di tornare alle radici, altri seguono la strada della creatività più spinta. Per me, la cucina deve avere un’identità forte, che non si limiti a replicare ciò che esiste già. Quando si esce a cena, l’ospite vuole vivere qualcosa di nuovo, di emozionante. Ciò non toglie che, anche nel fine dining, debba esserci un rispetto assoluto per la tradizione. Amo i ristoranti antichi, quelli storici. Nei miei viaggi gastronomici cerco sempre due cose: il miglior ristorante contemporaneo del territorio e il più antico. Voglio capire le radici autentiche. Poi, quando creo un nuovo piatto, parto sempre da lì: dalla storia, dagli ingredienti originali. Studio le versioni tradizionali, perché ogni innovazione, per essere sensata, deve conoscere profondamente ciò che è stato. Un cuoco deve rispettare l’ingrediente, esaltarlo. Se il piatto ha come protagonista la melanzana, la melanzana deve essere riconoscibile, deve esprimersi. L’autenticità non va mai persa, anche nella cucina d’autore. Ma quando un ospite decide di trascorrere un paio di ore, anche più di due, nel nostro ristorante, sta scegliendo di regalarsi un’esperienza. Che sia per festeggiare un compleanno, per vivere una serata romantica, per scoprire qualcosa di nuovo o semplicemente per divertirsi, il ristorante gastronomico ha – o dovrebbe avere – una funzione diversa. Non è solo un luogo in cui si mangia bene, è un luogo in cui si vive qualcosa di speciale. Io lo ammetto, forse non sono la persona più imparziale per dire se questo tipo di ristorazione stia attraversando una crisi. Però una cosa posso dirla con certezza: gli ospiti continuano a rispondere con entusiasmo. Vengono, sorridono, si emozionano. Questo per me conta.

 

Parliamo delle sue proposte. Che tipi di percorsi è possibile fare?

A partire dalla prossima settimana, con il cambio menù, proporremo tre percorsi degustazione. Ai due già presenti – Gaia e Iter Siculo – si aggiungerà un terzo, Voyage. È un menù a mano libera, composto da dieci portate, in cui mi sento finalmente pronto a esprimere appieno il mio percorso personale e professionale. È il mio modo di raccontarmi attraverso la cucina, con totale libertà creativa.

 

Qual è il piatto che porta nel cuore?

Tra i piatti che porto particolarmente nel cuore c’è il Risotto Gaia. Non tanto perché sia tecnicamente il più complesso – anche se lo è – ma per la storia che racchiude. È nato per un concorso, con pochissimo tempo a disposizione. Lavoravamo fino alle due, tre, quattro di notte con i ragazzi della brigata, gli stessi che oggi sono ancora con me. Bilanciavamo le estrazioni, assaggiavamo, rifacevamo. È un piatto completamente vegetale, costruito su tre estrazioni diverse, con sapori molto intensi da armonizzare. È stato un lavoro di squadra, autentico, faticoso, condiviso. Per questo lo sento profondamente nostro. Se, invece, devo scegliere, il piatto di cui sono più fiero a livello tecnico, direi il piccione. È un piatto che l’anno scorso era già in carta, ma che ha avuto un’evoluzione importante. Quest’anno, anche se non sarà più servito come piatto principale, si troverà come elemento nell’amuse-bouche, come piccolo richiamo, quasi un gioco. Quel piatto è il risultato concreto dei miei viaggi: ho unito suggestioni, tecniche e sapori che ho incontrato in tre luoghi diversi. È una sintesi di esperienze, visioni, idee. E ne siamo tutti molto orgogliosi.

 

Lei è ambizioso e senza dubbio ha degli obiettivi. Cosa si aspetta dal futuro?

Quanto al futuro, so bene che nel nostro mondo si sogna sempre un riconoscimento, una consacrazione importante. Ma preferisco non parlarne troppo. Porta sfortuna, si dice. Quello che però posso dire, e che sento davvero, è che tutto ciò che ruota attorno al Ristorante Principe di Belludia merita gratitudine. Dalla cucina alla sala, dall’accoglienza alla direzione, tutti: il signor Paolo, il proprietario, la signora Rita, la direttrice, la brigata di cucina, l’head sommelier Benito, i ragazzi del secondo ristorante Casa Pasta, i ragazzi che ogni giorno si occupano della sala, dei fiori, della pulizia… tutti vivono con attenzione, cura e dedizione ogni singolo dettaglio. È un sistema che funziona perché è basato sul rispetto e sul sacrificio. E se arriverà un riconoscimento, sarà il frutto del lavoro di tutti. Non solo mio. E questo, già di per sé, è qualcosa di prezioso.

 

Il nostro percorso gastronomico

Il percorso si apre con una sequenza di amuse-bouche dal tono elegante e calibrato: Capesante con beurre blanc e caviale Calvisius (di cui il ristorante è ambasciatore), delicate e iodate, seguite da “cuore di mamma”, un piccione alla brace saporito e profondo, con quella nota ferrosa e affumicata che evoca il fuoco, la terra, il bosco. Poi un ottimo triplo brodo di pernice rossa, denso, concentrato, quasi ancestrale. Ma è la caramella a rompere gli schemi: una piccola provocazione sensoriale e seduttiva. Il commensale è invitato a indossare una mascherina da notte e dei tappi alle orecchie: tutto si fa buio e silenzio, tranne quel suono – crack! – che accompagna il primo morso della caramella croccante, fuori caramellata e dentro liquida, intensa al gusto di banana, lampone, teriyaki. È un gioco sensoriale, quasi intimamente complice, che ribalta la percezione e predispone il palato a lasciarsi guidare.

Tra gli antipasti spiccano due piatti diversi ma complementari. Gli asparagi leggermente affumicati, serviti con prosciutto crudo di suino nero dei Nebrodi e caviale Royal Calvisius, rappresentano forse il picco primaverile della cena. La grassezza elegante del prosciutto si sposa con l’amaricante vegetale dell’asparago, mentre il caviale aggiunge il tocco salino, rotondo, minerale. È un piatto che funziona per equilibrio e profondità, un canto di stagione, che – ci viene detto – presto uscirà dal menù, per il cambio stagionale.

L’altro antipasto, invece, è uno spettacolo scenografico: astice in doppia cottura, con corpo in court bouillon e chela fritta in panko. Una stratificazione di sapori che parte dalle note marine, passa dalla bernese e termina con plancton e lamponi fermentati. Ricco, articolato, intrigante, senza mai perdere eleganza.

Già conosciuti, gli agnolotti del plin: sono un esercizio di maestria artigianale: 33 tuorli per kg di farina, ripieno sontuoso di maialino nero dei Nebrodi e verdure, adagiati su una fonduta calda di Ragusano DOP e impreziositi da tartufo nero di Palazzolo Acreide. A lato, un brodo che rievoca lo spirito della cassœula lombarda, ma in chiave raffinata. Il risultato è confortante, territoriale. Il risotto Gaia, integrale Vignola, rappresenta invece la parte più concettuale della proposta: burro fermentato, barbabietola, fondo vegetale e crio-estratti di sedano rapa e spinaci. Una composizione cromatica e gustativa precisa, elegante, quasi pittorica. Il bicchiere di vino cotto servito in accompagnamento amplifica il senso di narrazione. Si passa al secondo. La costoletta d’agnello, cotta al green egg e spennellata con burro e timo bruciato: esterno croccante, interno succoso, glassata con fondo di cottura. In accompagnamento un purè di patate vellutato, cime di rapa saporite e un olio al peperoncino habanero che porta un leggero risveglio al palato. È un secondo di identità, che sa essere accogliente. La pasticceria è a cura di Fabrizio Fiorani. Il dessert finale “Declinazione di Cioccolato” è firmato da Melania Arcidiacono e chiude il cerchio con delicatezza. La ganache alla teriyaki è un’idea riuscita, che incontra la morbidezza del cremoso alla banana e fava Tonka e i frammenti di cioccolato in diverse consistenze. Intorno, Il gelato allo zenzero, vivace e stimolante, è adagiato su una crema inglese all’anice stellato e cardamomo. Accanto un esplosivo al gelato profumato al pepe lungo.