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L'intervista

Beppe Severgnini: “Oggi di chef e di cucine ne scrivono tutti. Farlo 20 anni fa non era scontato”

22 Maggio 2024
Beppe Severgnini Beppe Severgnini

“Montanelli era un uomo buono e un grande capo, soltanto in una cosa era dittatoriale: il cibo”. Così Beppe Severgnini – editorialista del Corriere della Sera – ricorda quando da giovane allievo di Indro Montanelli lo seguì dapprima a il Giornale per poi approdare insieme in via Solferino a Milano. Aveva 27 anni e venne inviato come corrispondente da Londra. Anni, tra gli ’80 e i ‘90, in cui “mangiare in quella città era davvero un atto di eroismo. Ma i miei colleghi al Corriere di sicuro sono stati anche più eroici di me” tra scatolette di tonno e sandwich mangiati al desk durante le notturne al giornale. La mensa Severgnini l’ha conosciuta solo quando, riapprodato in Italia nel 2017, è diventato, poi, direttore al settimanale 7-Sette. “Il cibo, in tutti i miei anni all’estero, ha sempre rappresentato un elemento fondamentale per parlare del mio Paese”. Una cordicella dei tanti tessuti urbani, culturali e sociali, un filtro attraverso il quale poter raccontare anche i grandi temi. “A patto che ci si sforzi di entrare in quella cultura per capirla davvero”.

E allora se per mangiare cinese bisogna diventare un po’ cinesi, per capire cosa c’è nella testa degli italiani bisogna mangiare un po’ come loro, perché “un italiano non pensa che una pietanza sia buona e una pasta sia cotta a dovere. Lo sa” – come si legge in Neo Italiani edito in Italia da Rizzoli – “ma il cibo c’è in ogni mio libro ne La testa degli italiani, in Inglesi, in Un italiano in America, praticamente non c’è n’è uno in cui non sia stato in qualche modo protagonista”. Sono tutte pagine nelle quali Severgnini prova a spiegare cosa sia la cucina per un italiano che, spesso, non sa neppure di abitare già dentro la storia del suo Paese attraverso la sue ricette, eppure la vive. Mangiare, allora, diventa un passo nel presente, ma anche un viaggio indietro nel tempo, recuperando momenti e ripercorrendoli attraverso antichi ricettari tra pagine con l’angolo piegato in alto, quasi se con quell’orecchia si desse al foglio la capacità di ascoltare. Il rischio di rileggerli dopo anni è solo di finire in anfratti di storia di un’Italia vissuta sottoforma di grammi e di quanto basta. Come quando, nel 2002, sfidò un tortello di zucca mantovano e il suo alter ego dolce cremasco. Di neutrale, c’erano solo le sponde del Mincio come luogo di sfida, per lui che, cremasco di nascita, parteggiava per quel ripieno di amaretti, uva sultanina, cedro candito e nella ancora lunga sequela di ingredienti a formare il laborioso impasto. Forse era quella stessa alea di patriottismo che portò, sul finire degli anni ’60, anche Montanelli in una sfida non dissimile tra una bistecca alla fiorentina e un risotto alla milanese: “Di quella sfida a Milano ne parlarono tutti”.

Ma mangiare piatti stranieri per chi come lui, da un quarantennio è apolide per dovere di informazione, è la normalità “oltre che un modo per entrare in sintonia con le persone del luogo”. Sperimentare, allora, provare e poi assaggiare “sono sempre stato avventuroso, senza mai essere incosciente” – perché ci sono Paesi in cui la paghi cara ad esserlo, come “nel sud dell’India, che ho mangiato banane per cinque giorni, ma quando nei miei viaggi ero sicuro non andavo a cercare né spaghetti né bistecche” . Preoccupazioni, queste, che oggi sembrano molto lontane, con il cibo che comunica con la realtà e la realtà che reagisce, passando per revisioni e mostrandosi in un profumo mediorientale che non è più lo stesso di quei tempi, lontano pure un miglio dai gusti della vicina oriente e di quella Cina visitata per la prima volta negli anni ‘80 da Severgnini “in condizione igieniche che non sono più, fortunatamente, quelle di oggi”. Dove perdersi a Baijing, negli hutong, in cerca di una xian bing o di un’autentica Duck de Chine, l’anatra laccata simbolo della cucina a Pechino, di avventato oggi ha solo il rischio di non trovare posto al ristorante.

E se il pericolo di intossicazione sembra essersi arginato, quello di annichilimento identitario pure con la gastro-diplomazia che soffoca le strade e i fast food che diventano imperanti. Magari oggi anche il signor Chu che nel film Mangiare Bere Uomo Donna di Ang Lee era alle prese con la preparazione di elaborati piatti cinesi, lo ritroveremo a bere un bubble tea ai giardinetti. Che siano quelli di Pechino o di Times Square. Con la (non) cucina degli States a suon di patatine e hamburger. Un’omologazione culinaria provata dallo stesso Severgnini – opinionista per il New York Times dal 2013 al 2021 – che oltre ad aver constatato come per il cibo l’unità di misura sotto il chilo non esiste – confessa di aver “avuto un po’ di difficoltà.”. Ricordando un viaggio su quelle strade dove alle prese con un’influenza di suo figlio “procurarsi una minestrina e un uovo sodo è impossibile. Spesso non capiscono cosa stai chiedendo”. E lui che ci ha speso una vita a capire il presente, a distanza esattamente di un ventennio, ricorda anche quando per la prima volta propose all’allora direttore del Corriere Paolo Mieli una pagina intera del giornale da dedicare alla cucina. “100 euro costava una cena da Cracco, 80 euro al Pescatore di Moreno Cedroni. Scrivevo di un cuoco, del suo rapporto con la tradizione e la cultura”. Oggi di chef e di cucine ne scrivono tutti “farlo vent’anni fa, alla pagina 4 del Corriere della Sera, non era per nulla scontato”.

Nel suo racconto gli aneddoti culinari arrivano in una sequela divagante e l’intermezzo televisivo con il programma Italians porta ulteriori retaggi gastronomici “un’intervista a Sirio Maccioni, storico chef toscano che nel ‘74 fondò a New York, Le Cirque, considerato il crocevia della ristorazione italiana nella grande mela o le dichiarazioni di Gualtiero Marchesi”. “Il cibo ha riempito tutto il mio lavoro, ma non è mai stato il mio argomento principale. Forse è per questo che non mi ha mai annoiato”. Penna e forchetta, allora, come costanti sempre in uso. Quanto le stesse che racconta anche del suo maestro: “Il cibo e la scrittura erano due cose per le quali un fiorentino come Montanelli riteneva che non ci fosse competizione. Una volta mi fece un grandissimo complimento. Mi disse: come fai a scrivere così? non sei neanche toscano”.