Nato in Spagna e oggi diffuso anche in Italia, il metodo di produzione di olio con sistema superintensivo promette rese record e una gestione tecnologicamente avanzata.
Nell’ultima guida ai migliori oli extravergine di Slow Food, però, questo sistema è stato messo al bando e sono state escluse dalla lista tutte le aziende che lo utilizzano in Italia. “Le nostre guide – ha detto Barbara Nappini, curatrice della Guida – non si limitano a valutare la bontà di un prodotto, ma a valorizzare il lavoro che ci sta dietro, le storie delle persone, il rispetto per l’ambiente e il sociale. Con le nostre pubblicazioni vogliamo dare messaggi chiari e utili: a valle, certo, segnalano prodotti e materie prime di qualità, ma a monte creano sistemi locali del cibo, con ricadute positive sul piano economico, sociale, ambientale e paesaggistico. Il sistema di oliveto superintensivo sta proponendo un approccio altamente tecnologico e produttivistico alla coltivazione degli olivi che non tiene in considerazione questa cornice sistemica. È necessario sensibilizzare i produttori sui rischi di questo sistema con motivazioni concrete, come ad esempio la scelta di non inserire in Guida gli oli da impianti superintensivi a partire da quest’anno”.
E andiamo ai numeri: gli oliveti, ordinati in filari stretti come i vigneti, ospitano fino a 2.000 piante per ettaro, a fronte delle 200-300 dell’olivicoltura tradizionale. Le varietà coltivate – tra cui spiccano Arbequina, Arbosana e Lecciana – sono selezionate per la loro capacità di adattarsi alla raccolta meccanica tramite scavallatrici, simili a quelle usate nella viticoltura.
La produttività può arrivare anche a 12-13 tonnellate di olive per ettaro, con rese in olio tra 1.500 e 2.000 litri. Nel 2024, secondo i dati ISMEA e Coldiretti, la produzione italiana di olio d’oliva si è attestata intorno alle 224.000 tonnellate, in calo del 32% rispetto all’anno precedente, principalmente a causa della siccità e degli eventi climatici estremi. In questo scenario, il sistema superintensivo ha mostrato una maggiore resistenza, soprattutto nelle aziende del sud Italia che lo hanno adottato su scala ampia, come in Puglia e Sicilia.
Slow Food non mette in discussione la qualità dell’olio perché, come ci racconta il professor Tiziano Caruso, docente di Olivicoltura all’Università di Palermo, anche da un superintensivo possono essere prodotti oli di alto livello. “Quello che fa l’associazione – ci dice – è un concetto di filosofia. Il confronto non avviene sul prodotto finale, ma sull’approccio gestionale. Con gli impianti secolari quanto olio si immette oggi sul mercato nel mondo? Oggi un oliveto superintensivo può produrre molti quintali di olive per ettaro in più di uno tradizionale”.
Pur considerando che quella di Slow Food è una scelta legata a una visione etica e valoriale, proviamo a capire le differenze tra un sistema di olivicoltura tradizionale e superintensivo. Come ci spiega il capo panel Giuseppe Cicero, infatti, il superintensivo richiede una quantità di acqua molto alta. “Il concetto da sottolineare è la velocità di produzione. Ma il problema di questo sistema è che allo stato attuale viene fatto con varietà non italiane. La nostra risorsa più grande oggi è la biodiversità. Sfruttiamola”. Gli oliveti ad altissima densità sono infatti come dicevamo realizzati principalmente con varietà spagnole come Arbosana e Arbequina. “Se oggi decidessero – continua Cicero – di fare entrare nei disciplinari di produzione di Dop e Igp varietà spagnole sarei in totale disaccordo”.
Gli fa eco il professor Maurizio Servili, docente all’Università di Perugia: “La riduzione della biodiversità è un problema enorme. In Italia limitiamo questo perché ci sono solo 4/5 cultivar più o meno antiche che si adattano al sistema superintensivo come l’Fs-17 o il Leccio del Corno. A livello mondiale il superintensivo è intorno al 5% della superficie mondiale ma produce il 30% dell’olio di tutto il mondo. In Italia questo sistema copre all’incirca poche migliaia di ettari”.
E poi c’è il problema paesaggistico, sempre sollevato da Slow Food. “I sistemi superintensivi – ci dice Servili – sono adatti solo alla pianura o alla bassissima collina e non rappresentano un modello esportabile ovunque. Occorre considerare che una parte significativa degli oliveti tradizionali è ormai ridotta al lumicino. Eppure, avremmo un potenziale enorme: potremmo produrre 700 tonnellate, ma attualmente ci fermiamo a 200”.
“Il mio pensiero su questa scelta? Non la capisco se non adeguatamente spiegata”. A dircelo è Filippo Legnaioli, presidente FIOI (Federazione italiana olivicoltori indipendenti). “Ci sono certamente aspetti di verità oggettivi, ma la più grossa pecca di Slow Food è che non mette sul tavolo il problema della mancata remunerazione del lavoro degli olivicoltori. Cosa voglio dire? Che a un certo punto bisogna lasciare nei limiti della natura la scelta di individuare il modello produttivo che un imprenditore ritiene opportuno per la sua azienda. Sostenere che questo modello non debba essere praticato la ritengo una scelta forte”.
Per Legnaioli il fenomeno dell’abbandono della terra si verifica perché vengono a mancare condizioni per lavorare. Ma la qualità dell’olio si vede essenzialmente dalla qualità delle olive e dalle giuste azioni fatte in frantoio e non dal sistema utilizzato nella coltura. “L’Italia ha più di 500 varietà quindi una biodiversità immensa. È chiaro che la scelta del superintensivo è praticabile unicamente con un numero di varietà bassissime quindi ovviamente è un tema che merita attenzione”.
“Non possiamo lasciare che lo status quo – dice Servili – porti all’abbandono delle superfici olivetate. Il sistema superintensivo è un metodo molto limitante: non si tratta di una tecnica di produzione facilmente adattabile all’olivicoltura italiana. Può funzionare solo in aree pianeggianti e con abbondante disponibilità idrica. Per tutte le altre zone, la strada più sostenibile è quella dell’intensivo, non del superintensivo. Inoltre, l’aspetto paesaggistico va considerato: anche visivamente, il superintensivo si presenta in modo molto diverso”.
Superintensivo sì o no? La risposta non è univoca: ogni azienda dovrebbe poter scegliere il modello più adatto, tenendo conto delle risorse disponibili, del contesto ambientale e della necessità di tutelare la biodiversitài. E si potrebbe pensare a una riconversione verso impianti intensivi con 500 ceppi per ettaro, utilizzando varietà nazionali a scelta. Questo approccio è più produttivo e contribuirebbe a salvaguardare sia la biodiversità che la produttività.