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Scenari

Da Breno e dalla Valcamonica la salsiccia di castrato, un insaccato che “flirta” con le pinte

27 Aprile 2025
Salsiccia di castrato Salsiccia di castrato

Non è un eccezione, per Cronache di gusto, trattare più volte uno stesso argomento (del resto: non c’è niente che lo impedisca o lo sconsigli). Ecco, in questo caso, torniamo con piacere a volgere la nostra attenzione verso un salume: ovvero la salsiccia di castrato, di cui abbiamo già parlato a proposito di una birra, la Terraferma (leggi qui>) targata Porta Bruciata (marchio artigianale con base a Rodengo Saiano, nel Bresciano). In tale circostanza, tuttavia, l’insaccato di cui ci occupiamo oggi ha avuto l’opportunità di compiere giusto una veloce apparizione: troppo fugace per rendere conto, in modo adeguato, della sua peculiarità e del suo valore, non solo organolettico, ma anche antropologico. E perciò, ora, ci accingiamo a rimediare…

UNA STORIA… DA MORDERE
Valore antropologico, si è detto: e l’espressione non è usurpata. La salsiccia di castrato, infatti, è una testimonianza sopravvivente di come l’allevamento ovino abbia avuto, in molte parti d’Italia, un ruolo economico rilevante, ancora fino a tutto l’Ottocento. Nel nostro caso, l’ambientazione è quella della Valcamonica: il lembo più settentrionale appunto della provincia di Brescia. Qui si trova il comune di Breno, il cui territorio è, si può dire, la culla odierna del nostro salume: perché se l’origine della ricetta si perde indietro nei secoli, la sua prima codifica, risalente agli ultimi del XIX secolo, è merito appunto di un brenese, Pietro Rizzieri; il cui ideale testimone sarebbe stato raccolto, poco più tardi, da un concittadino, Giovanni Pedersoli, che nel 1922 assunse l’iniziativa di avviare una manifattura su più larga scala.

UNA LAVORAZIONE UNICA
Incluso dalla Lombardia nel proprio elenco regionale dei PAT (Prodotti Agroalimentari Tradizionali), il nostro salume trova la sua maggiore peculiarità nella carne impiegata. Quella, appunto, di castrato: ovvero un esemplare di pecora in età superiore ai sei mesi e inferiore ai due anni, che sia stato sottoposto a castrazione, se maschio, o che non abbia partorito, se femmina. Un tempo le polpe ovine venivano utilizzate in purezza, senza aggiunte di diversa natura: e tale è ancora la regola per la versione specifica brenese, individuata, nella sua particolarità, con la qualifica di DeCo (denominazione comunale); altre varianti ammettono invece la possibilità, per motivi economici, di apportare integrazioni con porzioni bovine e talvolta anche suine. In ogni caso, la prassi tradizionale prevede che la materia prima venga sgrassate a fondo: prima manualmente, a punta di coltello su ceppi in legno, poi al tritacarne; e che, successivamente venga sottoposta a macinatura finissima, con sale, pepe, aglio, altre spezie, nonché brodo ricavato dalla carcassa (ossa comprese) dello stesso capo macellato.

UN GUSTO INIMITABILE
Una volta preparato l’impasto, lo si insacca in una membrana di budello naturale (il cui diametro va dai sei agli otto centimetri) e si sagomano i salsicciotti (di una lunghezza tra i venti e trenta centimetri con un solo nodo in testa e in coda). A quel punto, poi, non resta che prepararli per l’atterraggio in tavola; giusto il tempo di una breve cottura in acqua non salata: per consuetudine si resta entro i 15 minuti. All’assaggio, si ha che fare con boccone la cui consistenza è soffice e la cui componente lipidica è ridotta al minimo (siamo sotto il 6%). Quanto all’assetto gustativo, risulta segnato da moderate tendenze sapide e piccanti; mentre la piattaforma olfattiva viene caratterizzata primariamente dalla varietalità delle note animali. Un profilo sensoriale, insomma, assai ben definito; che abbiamo affrontato, in termini di abbinamento, affiancandogli tre birre di altrettante diverse tipologie.

CON LA BLANCHE
Si parte con una Blanche: la Nina firmata, a Cinto Euganeo (Padova), dal marchio veneto La busa dei briganti. Abbiamo qui a che fare con una versione personalizzata del canone tipologico ispiratore: basata su una miscela di orzo maltato e frumento in fiocchi; lavorata con abbondante aggiunta di spezie: scorze di bergamotto e arancia dolce, coriandolo, cardamomo e pepe di Timut. Il tutto a consegnare una birra dal colore paglierino e dall’aspetto velato; la cui gradazione, pur morigerata (siamo a 4.7), operando di concerto con una guizzante bollicina e una naturale acidulità, risolve in scioltezza la contenutissima materia grassa del boccone. La consapevole rinuncia all’amaro da parte della sorsata, poi, oltre a essere stilisticamente encomiabile, ha il pregio di non urtare il combinato sapido-piccante della salsiccia. Mentre la speziatura della bevuta – essa stessa in alleanza con la già citata vibrazione acida – limita a dovere le eventuali insistenze olfattive che alcuni consumatori potrebbero riscontrare nell’insaccato, a causa della incisiva aromaticità sia della carne ovina sia dell’aglio usato in concia.

CON LA DUNKELWEIZEN
Okay, d’accordo: ci piace (in questo caso, almeno) proseguire su un terreno favorevole. Quello del paradigma acidulo e non amaro: garantito, così come dalle Blanche, anche dalle Weissbier. E allora, dalla Germania (per la precisione dalla località bavarese di Titting), la gamma della Brauerei Guttmann ci recapita idealmente in cucina la sua Dunkel Hefeweizen da 5.2 gradi: prodotta con malto d’orzo e (ovviamente) frumento; contrassegnata da un bel colore ramato scuro, da una fitta velatura e da una rigogliosa corona di schiuma beige. Alla bevuta, agisce sui grassi della salsiccia con risultati analoghi a quelli della Nina; il che è logico, mettendo in campo armi identiche: alcolicità contenuta, ma carbonazione arzilla e vivace nerbo acidulo. Il quale (idem come sopra) stimola salivazione ed enzimi a sufficienza per domare con solerzia le potenziali stucchevolezze del binomio aglio-carne ovina; mentre la pressoché totale assenza d’amaro evita frizioni di sorta con gli esiti sapido-piccanti del boccone. Infine, le interazioni olfattive: la sorsata spinge abbastanza sul fruttato (banana), ma anche su almeno altri due pedali: il chiodo di garofano (che assicura il dialogo con le speziature dell’insaccato); e un tostato da crosta ben cotta che, in combinazione con le note carnee del piatto, evoca impressioni piacevoli da spuntino campestre a base di pane e salumi…

CON LA TRIPEL
La strada è tracciata: perché cambiarla? O, almeno, perché del tutto? E così finiamo con una Tripel: la Effimera targata 50&50, scuderia artigianale lombarda con sede a Varese. Si tratta di una Tripel, essa stessa, personalizzata. Anche e soprattutto per la scelta di contenerne il crescendo amaricante in chiusura di bevuta: il che rende, a noi, le cose più facili, andando a confermare una tra le regole d’ingaggio osservate in precedenza, così da scongiurare zuffe con la propensione sapido-piccante del salume. Per il resto la birra – che in mescita esibisce un bel colore ambrato, una diffusa velatura e una copiosa schiuma beige – lavora ancor meglio ai fianchi l’esigua materia grassa della salsiccia, con l’incisività della sua bollicina e della sua alcolicità, svettante a quota 9 gradi. Mentre, sul piano olfattivo, è la stessa carbonazione a farsi carico di sollecitare enzimi a placare le eventuali invadenze dell’accoppiata agliaceo-ircino; e, in termini generali, la sorsata, ricca di speziature (pepe e noce moscata, ad esempio), di nuovo instaura un bel duetto per affinità con le analoghe note espresse dall’insaccato…

BIRRIFICIO BUSA DEI BRIGANTI
Via Forestana, 9 – Cinto Euganeo (Padova)
T. 392 3447298
birrificio@busadeibriganti.com
www.busadeibriganti.com

BRAUEREI GUTTMANN
Am Kreuzberg, 1 – Titting (Baviera, Germania)
T. 0049 (0) 8423 99660
www.brauerei-gutmann.de
info@brauerei-gutmann.de

BIRRIFICIO 50&50
Via Merano, 5 – Varese VA
T. 349 8719400
info@50e50.beer
www.50e50.beer
Whatsapp – 349 871 9400