Chi è Diego Rossi?
“Un cuoco, niente di più. Tutti pensano chissà cosa, ma in realtà sono solo uno che ha fatto tante cose nella vita. Amo più mangiare che cucinare, e forse parte tutto da lì”.
Il primo ricordo in cucina?
“Gli uccellini di mio nonno con la polenta. Poi il caffè, lo preparavo sempre per tutti. E il fegato alla veneziana di mia madre. E ancora gli “ossi di porco”: quando si macella il maiale e si fanno i salami, le ossa si bollivano… avevo queste leggende in testa da bambino”.
E la prima vera volta ai fornelli?
“A casa cucinavo. Ma parliamo di scuola: facevo l’alberghiero e durante gli stage finii a preparare Pasque ebraiche con un professore che lavorava con la comunità ebraica di Verona”.
Oggi tutti parlano di consumo responsabile di carne. Come risponde Trippa?
“Sembra una barzelletta, ma la maggior parte dei nostri piatti è vegetale. La carne è quasi un’aggiunta, un contorno. Tranne le frattaglie, certo. E lì mi sbizzarrisco. Io stesso mangio pochissima carne. Il cuore di Trippa non è la carne, è l’onestà del piatto”.

Un’immagine dei primi giorni di Trippa a Milano
E il “quinto quarto”? Come l’ha presa Milano?
“Alla grande. All’inizio venivano gli appassionati e volevano solo frattaglie. Ma non avevo un menu intero così. Ora, dopo dieci anni, si è creata un’onda: tanti giovani chef si sono lanciati. Ma io ricordo com’era prima… e non c’era nulla”.
Che impatto ha avuto il post-pandemia sul vostro lavoro?
“Noi già prima lavoravamo su un’idea di sostenibilità umana: solo cena, 8 ore al giorno, un mese ad agosto, domenica liberi. Quando abbiamo aperto, non c’era niente del genere in giro. Ora è diventato un modello, ma all’epoca sembrava folle”.
Come sei arrivato a Milano?
“Dopo l’esperienza stellata a Cuneo con Juri Chiotti, sentivo il bisogno di dire qualcosa di mio. Milano era un megafono. Era vibrante, frizzante… e mi ci sono buttato”.
Com’è cambiata la città da allora?
“Peggiorata. Dopo il Covid, più cara, più pericolosa, trascurata. Io mi muovo in scooter e le strade sono un disastro. Dentro Trippa, invece, la crescita è stata continua”.
E oggi, dove investiresti?
“Fuori città. In mezzo alla natura, ma non troppo lontano. C’è bisogno di respirare, di fuggire dal cemento”.
Come imprenditore, segui le mode?
“Zero. Faccio quello che mi viene, e alla fine tutto coincide con le tendenze. Ma non le inseguo”.
E oggi, cosa serviresti in un menu ideale?
“Quello che senti davvero. La cucina dev’essere piena di esperienze, personale. Non amo questa moda delle fermentazioni spinte. Le usiamo da sempre — formaggi, olive, salami — ma non bisogna costruirci tutto un pensiero sopra”.
Come è accaduto il fenomeno Trippa?
“Perché è tutto vero. Si mangia bene, si è ospiti, non numeri. Qui ci crediamo tutti, non è solo lavoro. E facciamo i salti mortali, anche se sembra tutto facile. Dietro c’è una vera famiglia”.

I primi giorni di Trippa a Milano
Fine dining: morto o ancora vivo?
“Per me non è la mia strada. Tanti fanno fine dining senza le carte in regola. Deve restare a chi davvero lo sa fare”.
Tu fai alta cucina…
“Sì, ma la mia alta cucina è rispetto per la materia, servizio vero, prezzi popolari. Facciamo due turni da 70 coperti ogni sera. Non ricordo un tavolo rimasto vuoto”.
E le prenotazioni sono subito sold out, giusto?
“Ogni primo del mese apriamo le prenotazioni per il mese successivo. I tavoli vanno a ruba”.
Un altro posto dove apriresti?
“Mi muovo tra Porta Romana e Porta Venezia”.
Cavallo di battaglia in cucina?
“Frattaglie e verdure. Le prime da sempre, le seconde negli ultimi 15 anni. Amo cucinare la pecora, non mi piace fare dolci, ma siamo fortissimi con le paste fresche. E nessuno si aspetta che Trippa sia forte sulle paste”.

Momenti dello staff di Trippa a Milano
Un ingrediente che ami ma non usi mai?
“Il caviale. Amo crostacei e pesce, ma coi prezzi di oggi non riesco a proporli come vorrei”.
Quando non lavori?
“Viaggio. Per lavoro e per piacere. Giri in moto, cene, campagne, città d’arte… Amo l’architettura liberty”.
Hai avuto dei maestri?
“Mi ispiro a chi cucina nelle osterie di provincia. Ho imparato tanto da Giovanni Ciresa, Alfio Ghezzi… Ma lo stile me lo hanno dato le vecchie trattorie, i ricordi, persino Soldati in Viaggio nella Valle del Po”.
E la svolta?
“Quando è nato Trippa. È lì che ho iniziato a vivere davvero come volevo io”.
Nuove aperture?
“Sì. Con i ragazzi dell’Osteria alla Concorrenza (di cui è socio insieme a Josef Khattabi, Enricomaria Porta ndr.) stiamo aprendo una nuova osteria con cucina in zona Porta Venezia. Aprirà tra pochissimi mesi”.