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La degustazione

Se il risotto chiama… la birra risponde

28 Marzo 2021

di Simone Cantoni

D’accordo, la formula è da tempo abusata. Ma lo è, perché inopppugnabilmente vera. E declinarla nelle sue mille opzioni (per proprietà transitiva altrettanto vere) rimane troppo divertente.

Il riferimento è alla massima (conio inossidabile di Lorenzo Dabove, in arte Kuaska, il decano dei degustatori italiani) per cui “non esiste la birra, esistono le birre”. Che nella circostanza “trasliamo” sui fornelli, per affermare, con identica certezza, che “non esiste il risotto, esistono i risotti”. Già, perché il risotto rappresenta, oggi almeno, non semplicemente un primo piatto, bensì una modalità di preparazione del riso; la quale (venuta alla luce in Lombardia, per poi diffondersi prima nell’intero Settentrione e quindi in tutt’Italia), si rifrange, modificando gli ingredienti coprotagonisti del prezioso cereale, in un assortimento assai ampio e variegato di risultati. Risultati i cui profili sensoriali, sensibilmente differenti, richiederanno abbinamenti opportunamente modulati; come si è cercato di fare nella circostanza di cui stiamo per proporre il resoconto. Ma procediamo per gradi…

IL RISOTTO, IN ESSENZA
Una modalità di preparazione, si diceva. Senza scendere in dettagli che non ci competono, il criterio cardine è quello di una cottura attraverso la quale – diversamente dalla bollitura del riso in acqua e dal suo successivo scolamento – non si disperda l’amido contenuto nei chicchi. I quali perciò vengono, in un tegame, preriscaldati con un amalgamante lipidico (di solito burro oppure olio), per poi essere ammorbiditi a fuoco basso, avendo cura di mantenere costante il livello di umidità (che tende a calare per evaporazione), mediante l’aggiunta progressiva e regolare di elemento liquido (di solito brodo). Quest’ultimo, assorbito dai semi, e la permanenza in pentola (come anticipato) dell’amido, destinato a gelatinizzarsi per effetto della temperatura, fanno sì che il riso assuma una consistenza appetitosamente cremosa.

L’AFFINITÀ CON LA BIRRA
Ciò detto – e rimandiamo per questo a ricerche che possono agevolmente svolgersi sfogliando i numerosi ricettari disponibili su carta o in rete – lo “schema” appena sommariamente descritto si presta a essere interpretato in una quantità di varianti. Quel che interessa sottolineare, in questa sede, è che, al netto di ogni differenza, il risotto ha comunque un’affinità di fondo con la birra. Gli amidi, infatti, hanno un comportamento simile a quello dei grassi: tendono a generare uno strato colloso sulle superfici del palato, tale da ridurre la capacità dei suoi recettori. Risulta quindi opportuno, nel volgere di un tempo tecnico ragionevole, rimuovere tale “deposito”, ricorrendo a bevande che – dotate di idonee funzioni dette “di gestione”: effervescenza, acidità, tannicità, alcolicità – si rivelino in grado di svolgere un’azione solvente: diretta o indotta (in questo secondo caso mediante lo stimolo alla salivazione e, quindi, alla messa in circolo di enzimi ovvero quelle “chiavi inglesi chimiche” capaci di smontare le strutture molecolari complesse). Ecco, la birra, in media, possiede tali funzioni e le esprime a livelli piuttosto energici; dunque è facile intuire che, in “lei”, il risotto (così ben equipaggiato in amidi e grassi) trovi una compagna di strada ideale. Naturalmente a patto di inquadrare con raziocinio la personalità sensoriale della versione di risotto con la quale si ha, di volta in volta, a che fare. Nella circostanza di cui ci apprestiamo a dar conto, ne abbiamo testate tre; in abbinamento ad altrettante, esse stesse diverse, tipologie brassicole. Unico denominatore comune alle tre ricette, un impiego piuttosto oculato di sale, a evitare potenziali conflitti con la tendenza amaricante delle birre in accompagnamento.

NOCI E BITTER
Burro più brodo vegetale in amalgama; e poi gherigli: versione basilare, “essenzialissima”, del risotto alle noci; scegliendo però noci di ferrea qualità; che infatti non hanno tradito. Ad annaffiare il tutto, la “Best Bitter” targata Canediguerra (Alessandria), coi suoi 4 gradi alcolici e il suo Dna sensoriale autenticanente e splendidamente britannico. Il confronto parte su binari equilibrati in termini di corporeità e di densità sensoriale complessiva; e lo stesso vale per il rapporto tra la frazione amidaceo-lipidica del boccone e le virtù detergenti della birra (affidate qui prioritariamente alla bollicina). Come previsto la dolcezza del burro e il ruolo marginale della saliera non creano inciampi all’amaricatura della “pinta” (netta, benché assai levigata); la quale, invece, va leggermente in attrito con la piuttosto vigorosa espressione tannica delle noci. Peccato per questa discrepanza: unica, peraltro. Ché al contrario le stesse noci vedono la loro tipica aromaticità ripresa e assecondata dall’arco olfattivo della Bitter (arco le cui “chiavi di volta” sono il biscotto e la frutta secca in genere, con in luce, anche, la nocciola); e questo determina un assai piacevole allineamento delle direzioni odorose tra piatto e bicchiere.

FUNGHI E SPECK CON SMOKED ALE
Un classico davvero, il risotto speck e funghi; anch’esso eseguito secondo un’interpretazione “asciutta” nella lista degli ingredienti: solo burro e brodo vegetale, accanto ai due protagonisti esplicitati “in etichetta”. In abbinamento un prodotto curioso, “La Bruciata” della scuderia Chianti Brw Fighters (Radda in chianti, Siena), una Smoked Ale in versione abboccata, non pingue ma tornita (6.1 la gradazione), decisamente poco amara e invece dotata di sapidità, in virtù dell’aggiunta di sale in bollitura. Ecco, partiamo da questo punto. Il cloruro di sodio, presente (e comunque non invadente) nella birra, ma al contrario dosato in misure “quaresimali” nel pentolino del riso, non va in accumulo con l’incontro tra sorso e boccone: e questa è già buona cosa, dovendo calcolare anche la fisiologica salagione dello speck. Il quale, per propria natura affumicato, trova rispecchiamento nell’analoga (e architravale) componente olfattiva del bicchiere. In più, sempre sul piano olfattivo, le note biscottato-caramellate della birra riprendono i pur leggeri effetti di tostatura e maillardizzazione che intervengono, sulla fiamma, a carico del salume. Infine, decisamente proporzionato il “testa a testa” piatto-pinta: sia sul piano delle rispettive corporeità e densità sensoriali; sia in termini di rapporto tra la massa lipidico-amidacea del risotto e le funzioni di riordino palatale svolte dalla bevuta. Senza dubbio una partita equilibrata e appagante!

AGRUMI E AMERICAN IPA
Il round, almeno sulla carta, più rischioso: e quindi il più stuzzicante. In tavola un risotto agli agrumi, anche in questo caso affidato a un’esecuzione ridotta allo stretto indispensabile; ovvero con solo extravergine d’oliva e brodo vegetale, al fianco, ovviamente, dei frutti che danno il nome alla ricetta: nella fattispecie arancia, mandarino, pompelmo. E accanto, a idratare, la “Say When”, un’American Ipa da 6,7 gradi, in versione double dry hopping (Equanot e Azacca le varietà in gettata), a sigillo della quale troviamo la firma del Birrificio Lambrate (Milano) e quella (si tratta di una collaborazione) di un locale specializzato, il BrewDog Firenze. Sbrighiamo anzitutto gli aspetti più semplici della faccenda: primo, la materia grasso-amidacea del piatto è ben massaggiata e diluita dalla birra; e i valori “dimensionali” dei due contendenti (struttura corporea, intensità sensoriale, persistenza post deglutizione) sono reciprocamente proporzionati. Qui, insomma, ci siamo. Così come del resto funziona l’uniformità delle direzioni olfattive espresse dal boccone e dalla sorsata: una “bombetta”, la seconda, con note (prevedibilmente, dato lo stile) agrumate, ma anche di frutta esotica e fiori. Gli argomenti più interessanti del test emergono tuttavia in sede gustativa. Ché il risotto manifesta una tendenza amara piuttosto ficcante (e qui risulta provvidenziale aver previsto sale in dosi non più che “pediatriche”: altrimenti avremmo potuto avere una zuffa già sulla sola punta della forchetta); una tendenza che viene ricalcata dalla condotta gustativa della “Say When”, con una dinamica che mette in evidenza il meccanismo della sovrapposizione attenuativa dei contenuti amaricanti tra sorso e boccone. Un abbinamento, insomma, nel quale il luppolo (croce e delizia dei matrimoni in tavola) funziona da punto d’equilibrio: una soddisfazione mentale, oltre che della gola…

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