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Vino e dintorni

Palermo nelle etichette della Doc Monreale. Filippo Polidori: “Il nome è già una strategia di marketing. Serve semplificare”

06 Maggio 2025
Filippo Polidori Filippo Polidori

Dare un nome chiaro a un vino non è solo una scelta tecnica, ma un atto di visione. In un mondo dove il consumo è sempre più globale e visivo, le etichette diventano il primo racconto di un territorio. E da qui nasce l’appello lanciato su Cronache di Gusto per aggiungere la dicitura “Palermo” ai vini della Doc Monreale. 

Dopo aver sentito il parere di Roberta Garibaldi abbiamo interpellato Filippo Polidori, professionista della comunicazione enogastronomica con una lunga esperienza nel branding e nella valorizzazione dei territori e fondatore dell’agenzia Polidori&Partners che non ha dubbi: “Rendere le etichette più chiare e riconducibili a un territorio è una priorità. Le bottiglie viaggiano ovunque, finiscono sulle tavole di tutto il mondo. In questi contesti, aiutare il consumatore a capire da dove arriva un vino è un atto necessario.”

“Il consumatore di oggi – spiega Polidori – si orienta con ciò che vede e sente. Mangia e beve con gli occhi e con le orecchie. E se in etichetta trova un nome che conosce, si avvicina più facilmente”.

Non si tratta solo di estetica, ma di marketing. “È una regola semplice: nei primi secondi devi far capire di cosa stai parlando. Se una denominazione è poco nota, il prodotto deve essere forte. Ma poi serve una comunicazione che lo renda leggibile, e questo passa anche da un nome geografico più riconoscibile”.

Polidori porta l’attenzione su un altro aspetto: la funzione del nome come strumento di sintesi. “Se dovessi scegliere però tra Palermo e Sicilia? Sceglierei la seconda per una semplice ragione: questo vino può finire in Russia, in Cina, in Giappone. E allora dobbiamo aiutare i consumatori stranieri e lontani da noi a orientarsi e a identificare bene il territorio”.

Sul tema del racconto, emerge anche una riflessione più ampia: il territorio di Monreale, come detto nella proposta, confina con quello di Palermo ed entrambe le città possono vantare un itinerario arabo normanno (assieme alla città di Cefalù) che addirittura si fregia di far parte dell’Heritage List dell’Unesco e quindi rientrano nel Patrimonio Mondiale dell’Umanità. Ma Polidori invita alla cautela: “L’Unesco può essere un valore importante, soprattutto se si lavora su incoming e turismo. Ma inserirlo in modo forzato nel racconto di un vino rischia di essere troppo. Meglio non mettere troppi ingredienti sul fuoco. Se i vigneti nascono in un luogo riconosciuto e tutelato, questo valore emergerà da solo, senza bisogno di sovrastrutture”.

L’elemento decisivo resta la coerenza tra territorio, prodotto e comunicazione. E qui torna il ruolo dei produttori. “Il nome geografico aiuta, ma sono sempre le persone che costruiscono la reputazione di una denominazione. Una Doc nuova o poco nota ha bisogno di raccontarsi. Non basta esistere per essere compresa. Serve un lavoro costante, e soprattutto condiviso”.